Ottavio Serra

L'eredità scientifica dei greci

Introduzione.

La cultura moderna occidentale è erede del pensiero greco. In particolare, la cultura scientifica risente fortemente di quanto i greci hanno prodotto nel campo della matematica, principalmente, in astronomia e in fisica.

I greci, certamente, non crearono dal nulla il pensiero scientifico, ma assorbirono le concezioni fiorite presso le civiltà medio-orientali, in particolare babilonese ed egizia, rielaborandole però in modo originale e creando alcuni paradigmi che ancora oggi sono alla base della scienza.

Per quanto riguarda la matematica, si possono introdurre in modo schematico e approssimativo, quattro periodi di tre secoli ciascuno:

  1. il periodo ellenico vero e proprio che va dal 600 a.C. al 300 a.C; la matematica fiorisce dapprima presso le colonie greche sulle coste dell'Asia minore, poi nell'Italia meridionale (Taranto, Crotone) e infine nella madre patria, essenzialmente Atene;
  2. il periodo ellenistico, dal 300 all'inizio della nostra era; per effetto delle conquiste di Alessandro Magno la cultura si estende verso oriente e il centro degli studi si sposta verso Pergamo e Alessandria;
  3. il periodo greco-romano, dall'inizio dell'era cristiana a circa il 300 d.C;
  4. il periodo dei commentatori, dal 300 a 600 circa.

Anche per l'astronomia e per la fisica si possono accettare, con un grano di elasticità, le suddivisioni cronologiche precedenti.

La matematica.

Il primo periodo si suol fare cominciare con Talete di Mileto e terminare con Euclide di Alessandria, con il quale si conclude un fecondo periodo di sviluppo, che trova la sua sintesi nella stesura degli ELEMENTI, una delle massime creazioni del pensiero matematico. In questa opera la geometria viene codificata in maniera rigorosa, con la celebre distinzione tra termini, postulati e nozioni comuni, dopo di ché ogni proposizione (teorema) viene ridotta a una proposizione precedente e infine ai postulati mediante una catena deduttiva (quasi) impeccabile che ha suscitato l'ammirazione dei posteri. L'impianto deduttivo degli ELEMENTI ebbe vasta influenza su tutti i campi del pensiero, non solo scientifico ma anche filosofico in generale: si pensi per esempio a Spinoza e alla sua Ethica more geometrico demonstrata. Ancora alla fine dell'800 nelle scuole si insegnava la geometria direttamente dal testo di Euclide.

Con Talete invece la scienza greca, in particolare la matematica, ebbe il suo inizio. Naturalmente la matematica non balza dalla mente di Talete come Minerva dal cervello di Giove, bensì traendo le sue origini dalla matematica pre-ellenica, in particolare dalla geometria egizia. La differenza, e la novità che avrebbe improntato di sé lo sviluppo futuro della scienza, sta nell'idea che la geometria si possa e si debba studiare indipendentemente da eventuali applicazioni pratiche, ma come pura creazione del pensiero. Per questo i commentatori affermarono che la geometria divenne scienza quando Talete la portò in Grecia (dai suoi viaggi in Mesopotamia e in Egitto).

Anche la "summa" euclidea non è riducibile al solo contributo di Euclide, ma si alimenta dell'opera di una folla di grandi matematici, dal mitico Pitagora a Eudosso di Cnido, detto l'imbrigliatore dell'infinito. Quella che comincia con i pitagorici e, attraverso Zenone di Elea, si conclude con Eudosso è una delle avventure più emozionanti del pensiero. Ecco in sintesi di ché si tratta.

La scoperta che l'armonia musicale si riduce a rapporti semplici di numeri interi aveva convinto i pitagorici che il numero (il numero intero) fosse il fondamento di tutte le cose. In particolare lo spazio è costituito di punti (stigmè in greco, alla lettera, punta dello stilo) e il punto è una monade indivisibile, immagine spaziale del numero uno col quale si genera ogni altro numero, come lo spazio si genera col punto. In particolare, due segmenti devono essere in ogni caso commensurabili, cioè il loro rapporto deve essere un rapporto di numeri interi.

Ma la scuola pitagorica arriva intanto a un grande risultato matematico: la proprietà dei triangoli rettangoli, che va ora sotto il nome di teorema di Pitagora. Anche se non sappiamo come i pitagorici arrivarono al famoso teorema, è indubitabile che lo avessero acquisito in forma generale, non solo in casi particolari come gli egizi che lo conoscevano almeno nel caso che i lati misurassero 3, 4 e 5 .

Purtroppo (per i pitagorici) il teorema, applicato ai triangoli rettangoli isosceli, conduce a un risultato sconvolgente: l'ipotenusa e un cateto non sono commensurabili: il loro rapporto non può essere un rapporto di numeri interi !

In questa crisi si inserisce l'opera di Zenone di Elea. I suoi famosi paradossi probabilmente, come sostengono autorevoli storici della matematica come Tannery ed Enriques, dovrebbero intendersi come riduzione all'assurdo della concezione monadica dello spazio sostenuta dalla filosofia pitagorica; pertanto l'antinomia riscontrata nell'ambito delle concezioni pitagoriche andrebbe risolta eliminando uno dei corni del dilemma: il punto esteso indivisibile monade costitutiva dello spazio.

Restava però il problema dei rapporti irrazionali (Aretòi in greco: esecrati, indicibili?). Il problema fu affrontato e risolto da Eudosso, una delle menti più profonde della matematica greca, con la sua teoria generale delle proporzioni, esposta organicamente nel quinto libro degli Elementi di Euclide e dallo stesso applicata sistematicamente allo studio degli irrazionali quadratici nel decimo libro.

Eudosso, con concezione veramente moderna, non definisce il rapporto di due grandezze (omogenee), ma l'uguaglianza di due rapporti: se A B C D sono quattro grandezze, A omogenea con B e C con D, si dice che il rapporto di A con B è uguale al rapporto di C con D se, comunque si prendano due numeri (naturali, si intende!) m ed n, mC risulta maggiore , uguale, minore di nD ogni qualvolta mA è rispettivamente maggiore, uguale, minore di nB.

E' importante notare che il successo del metodo di Eudosso fu tale che indirizzò la matematica antica verso una trattazione puramente geometrica dei numeri, i rapporti appunto, impedendo perciò lo sviluppo di una trattazione aritmetica degli stessi. Ma il metodo eudossiano conteneva in sé grandi possibilità di sviluppo, e, nello spirito di quel metodo, nel XIX secolo finalmente Dedekind, Weierstrass e Cantor fondarono una teoria soddisfacente dei numeri reali.

Ad Eudosso è dovuto anche il cosiddetto metodo di esaustione mediante il quale si dimostra l'uguaglianza di una grandezza incognita a una grandezza nota facendo vedere che la prima non può essere né maggiore né minore della seconda. Questo metodo permetteva di calcolare l'area di una figura piana a contorno curvilineo, superando la limitazione della equiscomponibiltà in un numero finito di parti a due a due congruenti, applicabile ai poligoni. Noi ora otteniamo lo stesso risultato decomponendo una figura in un numero infinito di parti infinitamente piccolo. Il metodo di esaustione permetteva di aggirare l'ostacolo dell'infinito, in un certo senso imbrigliandolo.Eudosso lo applicò anche a figure solide, dimostrando la formula del volume del cono, già trovata da Democrito con ragionamenti infinitesimali di natura empirica.

Nell'utilizzo di questo metodo giganteggia la figura di Archimede. Ma applicarlo non era facile. Come Archimede stesso spiega nella famosa lettera ad Eratostene, (lettera sul metodo meccanico, ritrovata all'inizio del '900 dallo storico Heiberg in una biblioteca di Costantinopoli), egli dapprima si convince della validità di una formula confrontando la figura sconosciuta (piana o solida) con una figura nota immaginandole applicate agli estremi di una leva. Solo dopo dimostra rigorosamente la formula con il metodo di esaustione. Non è che il metodo meccanico della leva sia di facile applicazione. Solo il genio di Archimede riusciva a padroneggiarlo. Tuttavia in esso è contenuta in nuce l'dea fondamentale che una figura piana può essere intesa come una somma infinita di strisce infinitamente sottili, e una figura solida come somma di fette, idea che dopo quasi due mila anni, nel '600, condusse al principio degli indivisibili di Cavalieri e degli indivisibili curvi di Torricelli, che aprì la strada al calcolo infinitesimale di Newton e Leibniz.

Non potendo parlare di altri fondamentali contributi dei matematici greci, e mi dispiace in particolare di dover tacere di Apollonio e di Diofanto, sintetizzo brevemente il debito maggiore che abbiamo nei confronti della matematica greca: l'aver sistemato la matematica, in particolare la geometria, come sistema ipotetico deduttivo; l'aver saputo dominare il concetto di infinito, che era entrato rovinosamente sulla scena con i pitagorici, dapprima attraverso la critica negativa di Zenone e poi con la teoria delle proporzioni e il metodo di esaustione di Eudosso. E' da tener presente che l'infinito dei greci è l'infinito potenziale, nel senso di una serie che può essere prolungata quanto ci pare, mentre la cultura greca, seguendo Aristotele, ha ritenuto inconcepibile una infinità data in atto come un unico oggetto del pensiero. L'infinito potenziale ha dominato incontrastato la scena matematica fino alla seconda metà dell'800; solo con Cantor, e non senza forti opposizioni, fu introdotto in matematica l'infinito attuale nella teoria degli insiemi. Ciò condusse verso la fine dell'800 a una crisi dei fondamenti paragonabile a quella degli incommensurabili nella scuola pitagorica, ma questa è un'altra storia.

L'astronomia.

Come tutti i popoli, i greci furono affascinati dallo spettacolo del cielo notturno e dalle regolarità dei moti celesti. Dopo una fase mitica ( la teogonia di Esiodo, VIII secolo) l'astronomia si avviò ad essere una scienza col solito Talete (VI secolo), che portò dai suoi viaggi in Mesopotamia e in Egitto i risultati di un millennio di osservazioni celesti. Non pare però che l'astronomia di Talete fosse molto articolata; per lui la Terra galleggiava sull'oceano. In Anassimandro troviamo che la Terra è sospesa al centro del mondo e ha la forma di un cilindro abitato sulla base superiore. Anche se la scuola ionica non andò oltre queste concezioni abbastanza primitive, ebbe il grande merito di sostituire considerazioni naturalistiche e razionali a quelle mitiche. L'astronomia fece grandi progressi con la scuola eleatica e poi con i pitagorici. Parmenide considerava la terra sferica e l'universo costituito da strati sferici ad essa concentrici. E' questa la prima concezione delle sfere che tanto sviluppo doveva avere nell'astronomia fino a Copernico. Con Pitagora si hanno notevoli progressi nell'osservazione, viene riconosciuta l'identità tra Fosforo ed Espero (la stella mattutina e la stella vespertina), il centro del mondo viene situato nel centro della Terra, pensata abitata o abitabile anche agli antipodi. Il mondo è però pensato animato e di natura divina.

Con Anassagora si ebbe un salto di qualità. Non solo vengono identificati i cinque pianeti (Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno), ma viene introdotta una concezione materialistica del cosmo. Le stelle sono pietre infuocate, sostiene Anassagora, la Luna è grande quanto il Peloponneso. Queste affermazioni dovevano suonare abbastanza blasfeme, se è vero che un tribunale ateniese lo spedì in prigione e solo per intervento personale di Pericle fu liberato e mandato in esilio.

Un grande progresso nella determinazione dei moti celesti si ebbe con Eudosso di Cnido, il famoso matematico già citato. Egli immagina una serie di sfere concentriche alla Terra, sulle quali sono infissi il Sole, la Luna e i cinque pianeti conosciuti in posizione equatoriale. I corpi celesti ruotano di moto uniforme intorno alla Terra, mentre le rispettive sfere ruotano intorno ai loro assi polari. Per spiegare poi le stazioni, cioè l'apparente arrestarsi dei pianeti sulla volta celeste e l'inversione del loro moto, egli immagina che i poli di ogni sfera non siano immobili, ma trasportati da un'altra sfera più grande che gira con velocità differente intorno a un asse polare diverso dal precedente. Per le stelle fisse bastava una sola sfera. Occorre tener presente che questo sistema macchinoso di sfere, che indubbiamente rivela la genialità di Eudosso perché i moti celesti erano previsti con buona precisione, per l'autore erano solo un artificio geometrico per spiegare i fenomeni al quale l'autore non assegnava alcun significato di realtà fisica. Le cose cambiano con Aristotele, che fa suo il sistema di sfere di Eudosso e lo adatta alla sua dinamica cosmica facendone una realtà fisica. Sono le sfere che ritroviamo nel Paradiso dantesco.

Ma la fervida fantasia dei greci non poteva fermarsi al sistema geocentrico. Con Eraclide pontico nel 2° secolo a.C. si affaccia l'idea che il moto apparente della sfera celeste da oriente a occidente sia dovuto alla rotazione terrestre da ovest a est ; poco dopo Aristarco di Samo immagina che la Terra orbiti intorno al Sole e compie una misurazione abbastanza precise del raggio terrestre, nonché le prime stime di distanza della Luna e del Sole, molto imperfette in verità. Ma il più grande astronomo del mondo greco e quasi certamente di tutta l'antichità è Ipparco nato a Nicea in Bitinia verso il 180 a.C. A lui si deve in particolare un accurato catalogo delle latitudini e delle longitudini di circa 1000 stelle. Confrontando le longitudini con quelle riportate in un catalogo alessandrino di 150 anni prima, egli scoprì la precessione degli equinozi. La sua grande fama fece pendere la bilancia a favore del sistema geocentrico che egli sostenne contro la teoria rivale. Non abbiamo i lavori originali di Ipparco, tutto ciò che sappiamo di lui e delle sue scoperte lo ritroviamo nella grande sintesi astronomica di Claudio Tolomeo del 1° secolo d.C. Nella sua Sintassi, (Syntacsis in greco e per l'ammirazione dei commentatori arabi detta Meghìste Syntacsis, da Almagesto) Tolomeo espone la summa delle conoscenze astronomiche dei greci dal punto di vista del geocentrismo. Per costruire le tavole dei moti celesti egli però non si servì delle sfere di Eudosso e Aristotele, ma di un complicato sistema di cerchi: epicicli e deferenti, con i quali otteneva un soddisfacente accordo con le osservazioni. L'opera di Tolomeo, tradotta in arabo e poi in latino, ebbe un'influenza enorme per 13 secoli fino a Copernico e Galileo.

La fisica.

Anche nel campo della filosofia naturale i greci hanno lasciato tracce profonde sulle concezioni di fondo del pensiero scientifico, pur se il modo di affrontare i problemi della fisica è drasticamente differente dal nostro. Credo non si possa discutere il fatto che la fisica, da Galilei in poi, si avvale di due strumenti metodologici che le hanno consentito strepitosi successi: la matematizzazione e l'esperimento sistematico. I greci usarono con successo la matematica in astronomia, mentre nella fisica terrestre si limitarono a matematizzare solo fenomeni statici e solo molto tardi (con Archimede). Vi è solo traccia sporadica di sperimentazione e solo tra i fisici alessandrini che si interessavano della così detta pneumatica (Erone, macchine a vapore. Probabilmente anche Archimede).

I motivi di questi deficienze nello sviluppo della fisica greca vanno forse cercati nella differenza tra l'apparenza ordinata e periodica dei fenomeni astronomici e l'apparenza irregolare e caotica dei fenomeni terrestri, per cui mentre all'astronomia fu più facile associare lo strumento matematico, non altrettanto agevole si presentò il problema per la fisica terrestre. Non fu capito che la ripetizione che spontaneamente si osserva nei fenomeni periodici astronomici e che consente di inferirne le leggi poteva essere riprodotta artificialmente con la sperimentazione sistematica. Forse questa idea sarebbe finita per spuntare nella fervida fantasia dei greci, forse nel VI secolo presso i milesii ci fu qualche approccio del genere, ma dopo Platone credo che non fosse più possibile. L'influenza di Platone nel mondo antico (e non solo) fu enorme. La filosofia platonica insegnava che la realtà ultima è nel mondo delle idee e che perciò fanno ridere quei pitagorici (quei matematici in generale) che si affannano a ribaltare triangoli o a trasportare figure da una parte all'altra, come se fossero volgari oggetti materiali. Questo disprezzo sistematico per le operazioni materiali non poteva non escludere la sperimentazione dal contesto scientifico. Questo influsso negativo si ripercorse anche su un possibile studio matematico dei giochi d'azzardo, che pure erano ben conosciuti e praticati dai greci, e precluse la possibilità di intuire un calcolo delle probabilità, senza il quale del resto non è possibile una sperimentazione sistematica.

Il fatto poi che il tempo fosse ritenuto irriducibile allo spazio, il fatto che la purezza matematica non consentisse il rapporto tra grandezze non omogenee (non della stessa specie), lasciò la dinamica di Aristotele a livello puramente qualitativo. Lo stagirita non dà una chiara definizione di velocità. Bisognerà aspettare l'ardimento intellettuale di Galilei per fare una divisione tra uno spazio e un tempo. Del resto, una dinamica fondata sul concetto di velocità non poteva avere sbocchi. Come è noto dopo Galilei e Newton, ciò che conta è l'accelerazione, la variazione di velocità.

La fisica dei greci che ha ancora valore per noi è la fisica indipendente dal tempo, la teoria della leva e la statica di Archimede.

Ma allora, che cosa ci resta del pensiero fisico greco? Ci restano alcuni paradigmi che risalgono alla scuola ionica e hanno guidato la ricerca scientifica degli ultimi quattro secoli. Con Talete, Anassimandro, Anassimene, per la prima volta si concepisce la spiegazione scientifica come riduzione a pochi principi, possibilmente ad uno. Solo in tal modo è possibile orientarsi nella selva sconfinata dei fenomeni. Principio di tutte le cose è l'acqua (o l'indeterminato o l'aria: non ha eccessiva importanza) significa voler ridurre ad unità la molteplicità, la quale perciò è apparenza. Anche l'essere parmenideo svolge lo stesso ruolo. E da un punto di vista diverso, la teoria atomistica, riducendo le qualità a quantità, è anch'essa un modo di spiegare razionalmente i fenomeni, in uno scenario contrapposto: Democrito: Unica realtà gli atomi e il vuoto. Melisso, Parmenide: Il vuoto è nulla e il nulla non esiste, dunque il vuoto non esiste.

Questa controversia sull'esistenza o meno del vuoto sembrò risolversi con Newton a favore di Democrito, e per tre secoli prevalse incontrastata, salvo qualche voce isolata. Ma nel '900, con la fisica quantistica, il vuoto di Democrito e di Newton fu sostituito da un mezzo pullulante di particelle virtuali. Se vogliamo, possiamo chiamarlo vuoto quantistico, ma una volta espulsa da un contenitore tutta la materia ordinaria, resta la radiazione elettromagnetica, un gas di fotoni in equilibrio termodinamico col recipiente, che si può rarefare, non eliminare, portando la temperatura verso lo zero assoluto. Anche se fosse possibile arrivare allo zero assoluto, si avrebbe la continua creazione e annichilazione di coppie particella-antiparticella, che sembra riecheggiare il detto scolastico rifacentesi ad Aristotele:La natura ha orrore del vuoto.

Concludendo, i filosofi della natura del VI e del V secolo ci ha lasciato alcune idee guida che la successiva speculazione greca non ha saputo sviluppare in tutte le loro implicazioni:

- razionalizzazione dei fenomeni (passaggio dal mythos al logos, Talete);

Molte spiegazioni sono ingenue, ma intanto è stato compiuto il grande salto dal mito alla spiegazione razionale.

 

Bibliografia.

Gino Loria: "Storia delle matematiche", Hoepli;

Gino Loria: "Le scienze esatte nell'antica Grecia", Hoepli;

Attilio Frajese: "La matematica nel mondo antico", Universale Studium;

Max Jammer: "Storia del concetto di spazio", Feltrinelli;

Samuel Sambursky: "Il mondo fisico dei greci", Feltrinelli.